OPS, abbiamo troppo petrolio! E adesso?!?!?
Comprende le dinamiche in atto a livello mondiale ci aiuta a comprendere la complessità della vicenda. Non solo interessi economici ma politici e di salvaguardia dell'ambiente. Un intreccio degno dei migliori action movies. L'attuale prezzo del petrolio è effettivamente voluto da pochi? Può essere "pilotato"? Dietro alla realtà esiste un disegno? oppure si tratta del risultato dell'interazione tra domanda e offerta? Quale ruolo gioca la singola impresa alla ricerca del profitto per prosperare e lo Stato che possiede le risorse? Pubblico integralmente un illuminante articolo sul tema. Buona Lettura
Shale gas e prezzi oil: cosa cambia?
Di Chiara Proietti Silvestri e Agata Gugliotta - RIE
Resilienza, efficienza, produttività, ma anche indebitamento,
insolvenza e futuro incerto. Sono questi i termini che
attualmente identificano il business dello shale, da molti ritenuto
vittima e carnefice del crollo delle quotazioni del greggio, oggi
dimezzatesi rispetto ai 100 dollari del luglio 2014. Se è vero che
il calo dei prezzi oil è in larga parte ascrivibile alla condizione
di oversupply esistente su scala mondiale, trainata dal boom
unconventional del Nord America ed esacerbata dalla decisione
dell’OPEC di difendere la propria quota di mercato, è altrettanto
indubbio che un simile trend abbia messo a dura prova gran
parte delle compagnie energetiche, costrette a rivedere anche
in misura significativa le proprie spese di investimento.
A risentirne maggiormente sono le società attive nello shale,
già peraltro in stato di indebitamento a causa dei deboli prezzi
del gas statunitense rispetto a costi di produzione elevati e ad
una modesta crescita dei consumi. Se le major internazionali
mantengono una certa solidità grazie anche alla loro struttura
verticalmente integrata, le società indipendenti che operano
nell’upstream e cresciute con lo shale boom sono le più colpite.
Tali imprese operano spesso sia nei giacimenti di shale oil che
di shale gas, in virtù anche del fatto che quest’ultimo viene
in alcuni casi estratto in forma di gas associato ai pozzi di
petrolio; pertanto, risultano indebolite dal congiunturale calo
del prezzo del petrolio che, sommato agli altri fattori sopra
accennati, ha contribuito a contrarne i profitti. Basti pensare che
tre delle maggiori compagnie USA – Anadarko, Chesapeake
e Devon Energy – hanno chiuso il primo trimestre del 2015
in perdita, cui hanno contribuito minori entrate e svalutazioni
(impairments) per un totale di circa 13 miliardi di dollari.
In taluni casi, si è palesato anche il rischio di default. Nei
primi nove mesi del 2015, solo negli USA, sono andate in
amministrazione controllata 9 società energetiche; addirittura,
la criticità della situazione è tale da indurre alcuni analisti a
preconizzare una possibile bolla finanziaria . I casi di bancarotta,
d’altronde, sono sempre più frequenti, come avvenuto nel
caso di Samson Resources e prima ancora Energy
Future Holdings.
In sostanza, il calo del prezzo del petrolio complica e peggiora
un quadro finanziario già sotto pressione, costringendo le
compagnie ad adottare una politica di riduzione dei costi,
a rivedere i programmi di drilling e, conseguentemente,
i piani di spesa nelle infrastrutture di supporto.
Tale situazione, coadiuvata da un taglio della spesa anche
da parte delle grandi major, contribuisce a mettere a rischio
gli investimenti energetici a livello internazionale. Secondo
Wood Mackenzie, si parla di circa $1.500 miliardi di progetti
- sia nell’ambito di sviluppo di risorse convenzionali sia
dell’unconventional nordamericano - che potrebbero restare
sulla carta.
L’analisi che segue riguarda i potenziali effetti del mutato
contesto energetico internazionale sullo sviluppo dello shale
gas, sia negli USA – sinora indiscusso protagonista - che al di
fuori dei confini americani dove nuovi paesi potrebbero diventare
i driver della futura offerta di gas non convenzionale.
La “shale revolution” indietreggia
Il settore dello shale gas negli USA è un importante business
di cui l’economia domestica ha beneficiato in termini di
occupazione, maggior introiti governativi provenienti da tasse
e royalties, vantaggio competitivo delle imprese nazionali
su quelle estere grazie a prezzi interni più bassi, rilancio di
settori affini come l’industria della plastica. Tuttavia, il mutato
contesto internazionale comincia ad esercitare un impatto non
trascurabile sul comparto, mettendo a rischio la produzione
futura.
Come già accennato, i prezzi oil possono avere un impatto
diretto e indiretto sull’industria dello shale gas. Diretto, in
quanto il suo sviluppo è legato anche all’estrazione del gas
associato ai giacimenti di petrolio, come riscontrabile nei bacini
di Eagle Ford e Bakken; indiretto, per via delle ripercussioni
finanziarie sulle società energetiche che operano negli
shale plays e che, pressate da minori profitti, sono costrette
a tagliare le proprio spese di investimento. In assenza di
adeguati investimenti, la produzione non può che frenare,
specie nei campi unconventional che presentano un elevato
tasso di declino dei pozzi (depletion) – nel primo anno arriva
anche al 60-70% – fattore che richiede un maggior numero di
perforazioni per mantenere un dato livello produttivo.
La riduzione delle attività di drilling, come mostra il calo dei
rig nei bacini di shale oil e shale gas negli USA nell’ultimo
anno, è pertanto un campanello d’allarme che può incidere
sulla futura produttività dei giacimenti. Nei primi mesi successivi al crollo delle quotazioni oil,
l’industria dello shale si è dimostrata particolarmente resiliente
con la tenuta della produzione O&G che, nel caso del gas, ha
continuato a crescere fino all’inizio dell’estate. Tuttavia, negli
ultimi tre mesi, la produzione ha avviato un lento declino che
potrebbe consolidarsi in vista di un mancato recupero delle
quotazioni. Attualmente, l’output di shale gas negli USA si
attesta sui 44,9 mld pc/g, in calo dello 0,4% rispetto al mese
di agosto. Le stime dell’EIA DOE per ottobre prevedono un
ennesimo calo dello 0,5% rispetto a settembre, il quarto
consecutivo. Sebbene per conoscere uno scenario di più lungo
respiro bisognerà attendere il WEO 2015, in pubblicazione a
novembre, già nel suo rapporto di medio termine l’AIE ha dato
alcune indicazioni prospettiche. L’Agenzia resta convinta che
la produzione di gas continuerà ad aumentare, prevedendo
una moderata crescita per il gas associato al 2020 con una
iniziale caduta cui poi seguirà una ripresa verso fine periodo.
Un trend sostenuto dalla riduzione del tasso di depletion in
alcuni bacini, come Haynerville, e dalla maggiore produttività
dei pozzi come nei bacini di Marcellus/Utica.
L’industria dello shale gas non è scomparsa sotto l’effetto
del crollo dei prezzi oil ma chiaramente soffre un contesto
di minore profittabilità che la mette sotto pressione: se da
una parte la produttività dei pozzi è notevolmente aumentata,
grazie ai grandi miglioramenti di efficienza nelle performance
di fracturing e drilling, dall’altra le compagnie devono fare i
conti con prezzi di breakeven sostenuti e costi di produzione
più elevati rispetto ai tradizionali campi convenzionali.
Se questa è la situazione negli Usa, principale protagonista
della shale revolution, è interessante valutare cosa sta
accadendo negli altri paesi che, si stanno affacciando ora
sulla scena di questo nuovo settore.
Cosa accade negli altri paesi produttori…
Ad oggi, al di fuori dei confini statunitensi, lo shale gas è prodotto
solo in altri tre paesi: Canada, Cina e Argentina. Si tratta di una
produzione ancora esigua se paragonata a quella americana
- l’output in Canada è poco più del 10% di quello statunitense,
quello della Cina non raggiunge l’1%, mentre in Argentina è
stata avviata da poco una produzione commerciale.
Canada
In Canada, secondo le stime EIA, le risorse di shale gas
tecnicamente recuperabili si aggirano sui 573.000 mld pc,
le quarte a livello mondiale, principalmente ubicate nelle
provincie della British Columbia (BC), Alberta, Yukon,
Northwest Territories, Quebec, New Brunswick e Nova Scotia.
I primi volumi di shale gas sono stati prodotti nel 2005 nel
bacino di Montney, in BC, ma è a partire dal 2007 che cresce
l’interesse delle compagnie energetiche e vengono avviate
nuove produzioni nella provincia dell’Alberta e della BC.
Nonostante abbia in parte contribuito a compensare il declino
dei campi di gas convenzionale nel paese, la produzione risulta
essere ancora poco significativa: a maggio 2014 (ultimo dato
disponibile), i volumi estratti si sono attestati sui 3,9 mld pc/g,
in aumento di quasi 2 mld pc/g rispetto al 2011.
A differenza della produzione di petrolio da sabbie bituminose,
il settore dello shale gas ha attirato minori investimenti e
il concatenarsi di una serie di fattori ne ha condizionato lo
sviluppo.
1. La vicinanza del colosso statunitense: grazie all’avvento
dello shale gas, gli Stati Uniti sono passati dall’essere primo
importatore di gas canadese a principale paese produttore
rivale sui mercati internazionali. L’abbondanza di gas ha
generato, infatti, ambiziose aspettative di crescita di un’industria
della liquefazione diretta all’esportazione, ma le prospettive
risultano essere ben diverse tra due paesi. Mentre negli Stati
Uniti significativi progressi sono stati compiuti e ci si attende
la partenza dei primi impianti di liquefazione nel brevissimo
termine, in Canada nessun impianto di liquefazione è in
costruzione con un conseguente procrastinamento in avanti
dell’attività di vendita all’estero.
2. Il basso prezzo del gas nel mercato domestico. L’AECO, il
prezzo di riferimento del mercato del gas canadese, ha subito
negli anni un drastico ridimensionamento in ragione della stretta
correlazione di quest’ultimo con le quotazioni di riferimento
del gas statunitense, l’Henry Hub, il cui valore si è fortemente
contratto con l’aumento della produzione nazionale. Il collasso
dell’AECO ha danneggiato non solo il comparto dello shale
gas ma tutto il settore gasiero, già penalizzato dalla drastica
riduzione delle importazioni di gas del vicino statunitense.
3. La sempre più crescente opposizione pubblica per le
preoccupazioni di ordine ambientale sull’impatto della
fratturazione idraulica, con particolare attenzione alla gestione
delle risorse idriche e all’inquinamento atmosferico. Iniziata nel
2009, la protesta ha costretto nel 2011 il governo provinciale
del Quebec ad introdurre una moratoria temporanea al fracking
e nel 2013 a vietarlo in alcune aree per un periodo di 5 anni.
Cina
La Cina, prima nazione al mondo per risorse tecnicamente
recuperabili (1.115 migliaia di mld pc), sta conoscendo uno
sviluppo del settore molto più lento delle attese. Nonostante
gli sforzi profusi e i capitali investiti, molti progetti sono ancora
fermi e altri sono stati abbandonati a causa del taglio degli
investimenti dovuto al calo dei prezzi del greggio. I volumi di
gas prodotti sono esigui: nel 2014, l’output, seppur sestuplicato
rispetto al valore del 2013, ha rappresentato appena l’1% della
produzione nazionale di gas, attestandosi su 0,13 mld pc/g.
Gran parte del gas estratto proviene dai campi localizzati nel
Bacino di Sichuan nella parte centro-meridionale del paese
dove, nonostante la presenza di major occidentali ad operare
prevalentemente sono le compagnie di stato cinesi: la China
National Petroleum Corp. (CNPC) e Sinopec. Secondo fonti
governative, le due compagnie dovrebbero essere in grado di
produrre 0,6 mld pc/g entro il 2015: unico target che rispetterebbe
le previsioni, qualora fosse effettivamente raggiunto.
L’insorgere di una serie di criticità di diversa natura (geologica,
economica e politica), infatti, ha ridimensionato le ambiziose
aspettative di crescita precedentemente prefissate: a fine 2014,
è stato dimezzato il target per il 2020 da 5,8 mld di pc/g a 2,9
mld di pc/g e negli ultimi mesi è aumentato lo scetticismo sul
fatto che anche questo nuovo obiettivo venga effettivamente
rispettato.
Puntare sullo shale gas per la Cina è un’opportunità in termini
economici (riduzione delle importazioni dall’estero e creazione
di nuovi posti di lavoro), ma è anche un’esigenza in termini
ambientali: l’obiettivo di Pechino è di contenere l’allarmante
livello di emissioni, aumentando la domanda di gas a discapito
dei più inquinanti consumi di carbone e petrolio. Eppure il
colosso asiatico fatica a superare gli ostacoli che si frappongono
allo sviluppo dello shale gas.
1. Da un punto di vista geologico, il paese sconta un territorio
ostile: per trovare il gas bisogna andare in profondità, mentre la
presenza considerevole di argille rende la fratturazione idraulica
più complessa e richiede un maggior apporto di risorse idriche.
Più che mai diventa indispensabile acquisire un’expertise
qualificata a supporto delle tecniche di estrazione: un know. how di cui manca l’industria cinese e a cui sta cercando di
sopperire mediante acquisizioni di compagnie estere.
2. A differenza di altri paesi, i campi sorgono in prossimità di
aree densamente abitate, pertanto i costi di gestione sono
molto più elevati e l’opposizione locale molto più pressante.
3. Da un punto di vista infrastrutturale, il paese è carente sia
della rete di trasporto (gasdotti e reti di distribuzione) che di siti
di stoccaggio, indispensabili per lo sviluppo del comparto.
4. Per quanto nel corso degli anni il governo si sia impegnato a
garantire un sistema prezzi e una politica fiscale incentivante,
il framework regolatorio è ancora poco attrattivo per i capitali
stranieri. Nonostante un timido tentativo di liberalizzazione,
i prezzi rimangono sussidiati e regolati dal governo centrale
e, pertanto, sono spesso più bassi di quelli del gas importato,
rendendo poco profittevole investire in nuova produzione.
Inoltre, il calo dei prezzi del greggio, riducendo il costo delle
importazioni di gas oil-linked, ha costretto il governo ad
abbassare il prezzo al citygate per il settore industriale al
di sotto del costo di produzione dello shale gas, creando uno
svantaggio competitivo per quest’ultimo.
5. Da un punto di vista fiscale ad essere incentivata è
la produzione di shale gas e non l’esplorazione, attività
imprescindibile per la buona riuscita del settore.
Argentina
Con buone prospettive di crescita si presenta il comparto dello
shale gas in Argentina, secondo paese a mondo per risorse
tecnicamente recuperabili (802.000 mld pc). Negli ultimi due
anni, nel paese sono stati perforati oltre 270 pozzi ed è stata
avviata la prima produzione commerciale di shale gas. Secondo
l’ultimo dato disponibile dell’Aprile 2015, dalla formazione di
Vaca Muerta, nella provincia di Neuquen, sono stati prodotti
dalla compagnia nazionale YPF circa 67 mil. pc/g. Si tratta di
volumi ancora modesti, ma che confermano la presenza di un
ampio potenziale che sta attraendo sempre più gli investitori
stranieri: YPF ha già costituito joint ventures con Chevron, Dow
Chemical e Petronas mentre ha firmato memorandum d’intesa
con China Petroleum & Chemical Corp. (Sinopec) e Gazprom
per una futura collaborazione.
Diverse sono le ragioni che spiegano il crescente interesse per
lo shale gas argentino.
1. L’imponente ammontare di risorse su cui il paese può
contare: nella sola formazione di Vaca Muerta, estesa quanto
il Belgio, sono presenti 308.000 mld pc di shale gas capaci di
soddisfare l’attuale domanda di energia del paese per almeno
150 anni.
2. Un incremento della produzione non solo
compenserebbe il declino dei pozzi di gas convenzionale ma
potrebbe far fronte ad un aumento del consumo interno, oggi
soddisfatto da un maggior ricorso alle importazioni con un
relativo aggravio sul bilancio dello Stato.
3. La capacità produttiva dei pozzi è superiore alla media
il che si traduce in una considerevole riduzione dei costi.
4. A differenza di altri paesi, l’area di estrazione di
Vaca Muerta ospita già un indotto petrolifero avviato con
infrastrutture e servizi esistenti, sebbene in alcuni casi siano
datati e obsoleti.
5. L’impatto sulle risorse idriche (necessarie in grande
quantità per la fratturazione idraulica) è minore che in altri
paesi.
6. La minore densità abitativa delle aree interessate dalle
attività di esplorazione riduce notevolmente le opposizioni
locali, nonché i rischi e i costi associati alla logistica, l’accesso
ai siti e la costruzione delle infrastrutture.
A questi fattori di vantaggio, tuttavia, si contrappongono
ancora numerose barriere da superare: serve potenziare il
quadro infrastrutturale specialmente la rete dei gasdotti e
rete di distribuzione; manca ancora il know how tecnologico e
operativo; occorre garantire ai capitali stranieri un framework
regolatorio chiaro e incentivante, minato da anni di politiche
nazionaliste, al fine di garantire un supporto politico certo e
duraturo.
In questa direzione si è mosso il Presidente Cristina Fernandez
de Kirchner, approvando nell’ottobre 2014 una prima riforma
della legge sugli idrocarburi, con l’appoggio dei governatori
delle province dell'Organizzazione federale degli Stati produttori
di petrolio (Ofephi). Secondo le nuove statuizioni normative, è
stato costituito un titolo concessorio esclusivo per le risorse
non convenzionali che estende il periodo di concessione a 35
anni rispetto ai 25 riconosciuti alle risorse convenzionali; viene
meno il potere di veto delle provincie e il processo autorizzativo
è stato uniformato e accentrato al governo nazionale; è stato
posto un limite alla soglia di royalties che le compagnie devono
versare e sono stati riconosciuti degli sgravi fiscali.
Si tratta di un primo, seppur importante, passo nella lunga strada
dello sviluppo dello shale gas in Argentina. Le prospettive, a
differenza di altri paesi sono positive ma soggette a numerose
variabili di natura congiunturale tra cui: il calo delle quotazioni
petrolifere, che potrebbe compromettere i piani di investimento
delle compagnie, e le prossime elezioni presidenziali (ottobre
2015), appuntamento importante che inciderà sulle future
politiche energetiche del paese.
… e nel resto del mondo
Al di fuori dei paesi già produttori, le attività di ricerca e
sfruttamento dello shale gas procedono a differenti velocità.
Lo sviluppo dello shale gas rientra tra le priorità strategiche
degli Stati, per diverse ragioni: rilancio dell’economia,
diversificazione delle fonti, minore dipendenza dalle
importazioni e conseguente maggiore sicurezza energetica,
necessità ambientali. Eppure nessuna produzione
commerciale è stata ancora avviata; se è vero che alcuni
governi si stanno impegnando nello sfruttamento delle proprie
risorse non convenzionali, è altrettanto evidente come in
taluni casi l’opposizione interna e altre criticità abbiano creato
una situazione di stallo.
America Centrale e meridionale
L’intero continente americano è ricco di shale gas. Le stime
parlano chiaro: nel Nord America, oltre a Canada e Stati Uniti,
anche il Messico ha un vasto potenziale (545.000 mld pc),
seguito dai paesi dell’America Latina quali Brasile (245.000
mld pc), Venezuela (167.000 mld pc), Paraguay (75.000 mld
pc), Colombia (55.000 mld pc), Cile (48.000 mld pc), Bolivia
(36.000 mld pc).
In Messico, i risultati positivi delle trivellazioni, l’impegno
della compagnia di Stato Pemex, l’approvazione della riforma
energetica che apre il mercato messicano per la prima volta
dal 1938, sono aspetti che potrebbero attirare i capitali esteri.
Tuttavia, anche in questo caso molti ostacoli devono essere
superati, tra cui la concorrenza del gas americano a buon
mercato che disincentiva la produzione interna a favore delle
importazioni.
Nel resto dell’America latina, nonostante una buona
propensione degli Stati a investire, il settore è ancora al
punto di partenza. Alcune prospezioni sono state avviate in
Brasile, ma ancora molto deve essere fatto per valutare la
reale portata dello shale gas del paese. Anche la Bolivia si
sta attivando, spinta dalla necessità di compensare il declino
della produzione domestica e far fronte sia agli impegni di
fornitura presi con i paesi vicini che alla maggiore richiesta
interna.
Africa e Medio Oriente
Nel continente africano, lo shale gas è principalmente
concentrato in Algeria (707.000 mld pc), terzo paese al
mondo per ammontare di risorse. I primi test nel bacino di
Ahnet sono stati condotti da Sonatrach nel 2011, ma un
maggior interesse è stato mostrato sul finire del 2014. Con
una produzione di gas convenzionale in declino a fronte di
una crescita della domanda interna e in concomitanza con
la caduta dei prezzi del greggio che ha contratto le entrate
petrolifere, da cui dipende il 60% del budget nazionale, è
diventata più stringente la necessità di diversificare gli introiti
e puntare a nuovi settori. Le condizioni per operare sarebbero
migliori rispetto ad altri paesi in ragione di un’industria del gas
storicamente strutturata, della presenza di infrastrutture di trasporto, dell’ubicazione dei campi in zone poco popolate
e di un crescente interesse delle compagnie straniere.
Tuttavia, il governo non ha ancora preso una decisione
finale di investimento: a fungere da deterrente è l’insorgere
di una violenta opposizione pubblica al fracking insieme
alla difficoltà di prevedere gli scenari della futura domanda di
gas, specialmente quella europea che ha conosciuto un trend
discendente negli ultimi anni.
A seguire, il Sud Africa con 390.000 mld pc: nonostante
il crescente interesse delle major, è forte l’opposizione
ambientalista contro la fratturazione idraulica. Proteste e
azioni legali hanno costretto inizialmente il governo a varare
una moratoria, abolita nel 2012, e ad assumere poi una
posizione attendista. Risorse significative anche in Libia
con 122.000 mld pc, Egitto 100.000 mld pc e Marocco con
12.000 mld pc; mentre i primi due che hanno compiuto pochi
progressi, il Marocco ha intensificato negli ultimi anni l’attività
di perforazione, soprattutto ad opera di piccole compagnie,
che sta restituendo risultati promettenti. Diversificare le
forniture e poter contare su una nuova offerta per far fronte ai
consumi nazionali in crescita rientra tra le priorità del paese.
Tuttavia, come per altre realtà, esistono una serie di ostacoli
quali la carenza infrastrutturale, la scarsità di ingenti quantità
di acqua necessarie al fracking, l’assenza di un sistema fiscale
e tariffario favorevole all’entrata dei capitali stranieri.
Tra i paesi del Medio Oriente, eccezion fatta per qualche
iniziativa di collaborazione tra l’Iran e le compagnie cinesi
ed occidentali per l’acquisizione del know how, l’unico paese
ad oggi interessato allo sfruttamento delle proprie risorse di
shale gas è l’Arabia Saudita. Riyadh sta investendo miliardi
di dollari in questo nuovo comparto per poter far fronte a una
domanda di gas in continua crescita, soprattutto nel settore
della generazione elettrica. Diversi accordi sono stati conclusi
con le compagnie occidentali, vari progetti esplorativi avviati e
c’è chi avanza addirittura l’ipotesi di un avvio della produzione
già fra due anni.
Asia e Australia
Ad eccezione della Cina, nel continente asiatico non si
evidenziano grandi sforzi diretti allo sviluppo dello shale gas;
al contrario, prevale una situazione di inattività in Indonesia,
Pakistan e India o persino un atteggiamento sfavorevole
come nel caso della Russia nonostante possieda risorse per
287.000 mld pc. Lo shale gas non rientra infatti tra le priorità
di Mosca: secondo il Cremlino, attualmente l’estrazione e le
relative infrastrutture di supporto si rivelerebbero più costose
dei possibili profitti, cui si aggiungono gli eventuali danni
all’ambiente. Ragioni politiche ed economiche, si celano dietro
il comportamento della Russia, impegnata in una campagna
contro il fracking, anche fuori dai suoi confini nazionali.
Per l’Australia, l’EIA stima un potenziale di 437.000 mld pc di
risorse tecnicamente recuperabili. Tuttavia, a differenza del
coal-bed methane ampiamente sfruttato nel paese, il settore
dello shale gas è ancora ad uno stadio embrionale: i deludenti
risultati ottenuti dalle esplorazioni, insieme ad una montante
opposizione ambientalista, hanno indotto alcune compagnie
ad abbandonare le ricerche.
Europa
Complessivamente, l’Europa può contare su un ammontare
di quasi 600.000 mld pc di risorse di shale gas, circa il 6,5% del
totale mondiale. Tuttavia, ad oggi non sono adeguatamente
sfruttate a causa dell’emergere di ostacoli operativi, ambientali
e di consenso allo sviluppo delle estrazioni. Negli ultimi
mesi, si registrano segnali poco incoraggianti per le sue
prospettive di crescita, con un aumento delle opposizioni
locali e la rinuncia delle major.
Le compagnie internazionali stanno orientando, complici i
bassi prezzi del greggio, le proprie strategie industriali verso
asset meno rischiosi ed verso una riduzione del capex,
misure che hanno reso anche più difficoltosa la mobilitazione
del capitale necessario da parte delle indipendenti. Ciò ha
un chiaro impatto sull’esplorazione unconventional che in
Europa ha costi più elevati rispetto agli USA per via di una
regolazione stringente e condizioni geologiche differenti.
In Polonia, ad esempio, le grandi major come ExxonMobil,
Chevron, Total, Eni sono uscite dal paese - l’ultima è stata
ConocoPhillips a giugno - specie dopo gli scarsi risultati dei
test iniziali; ciò ha portato di recente anche l’indipendente
San Leon a decidere di ridurre la sua esposizione vendendo
diversi asset esplorativi nel paese. Stessa sorte è toccata a
Romania e Lituania con l’uscita di Chevron.
Nel Regno Unito: nonostante il supporto governativo “all
out for shale”, si procede lentamente nelle attività di drilling
a causa di un aumento dei sentimenti anti-fracking sia nella
popolazione che a livello di istituzioni locali. È significativa, in
tal senso, la recente decisione della Contea di Lancashire di
rigettare la proposta di Cuadrilla Resources di avviare attività
di fracking al sito di Roseacre Wood così come l’approvazione
di una moratoria temporanea in Scozia e Galles che
sospende la concessione di permessi esplorativi. In tale
contesto, le prospettive di massici investimenti nello shale
gas si sono attenuate, almeno nel breve periodo. Sintomatica
è la posizione del Ministro dell’Economia olandese che ha
di recente escluso la possibilità di uno sviluppo delle risorse
shale nel paese almeno per i prossimi 5 anni.
In senso contrario sembra marciare, invece, la Germania che
ha approvato quest’anno il disegno di legge che disciplina
lo sfruttamento commerciale delle risorse di shale secondo
regole ben stabilite. Questa draft law, che dovrà superare il voto del Parlamento atteso entro l’anno, segna un’importante
presa di posizione della Germania che di fatto supera la
moratoria in vigore, non escludendo l’uso del fracking in
determinate circostanze, seppur con notevoli restrizioni.
Anche in Spagna è stata approvata una nuova legge sugli
idrocarburi che non pone divieti all’estrazione di shale gas
ma, d’altra parte, introduce un aumento del carico fiscale
sull’attività estrattiva. Nonostante alcuni paesi continuino a
supportare lo sviluppo dello shale gas, in un’ottica soprattutto
di sicurezza energetica, restano comunque notevoli incertezze
sull’effettivo sviluppo dell’unconventional; dubbi che l’attuale
contesto di mercato ha contribuito a consolidare.
Nessun commento:
Posta un commento