venerdì 16 ottobre 2015

OPS, abbiamo troppo petrolio! E adesso?!?!?



Comprende le dinamiche in atto a livello mondiale ci aiuta a comprendere la complessità della vicenda. Non solo interessi economici ma politici e di salvaguardia dell'ambiente. Un intreccio degno dei migliori action movies. L'attuale prezzo del petrolio è effettivamente voluto da pochi? Può essere "pilotato"? Dietro alla realtà esiste un disegno? oppure si tratta del risultato dell'interazione tra domanda e offerta? Quale ruolo gioca la singola impresa alla ricerca del profitto per prosperare e lo Stato che possiede le risorse? Pubblico integralmente un illuminante articolo sul tema. Buona Lettura


Shale gas e prezzi oil: cosa cambia? 
Di Chiara Proietti Silvestri e Agata Gugliotta - RIE
Resilienza, efficienza, produttività, ma anche indebitamento, insolvenza e futuro incerto. Sono questi i termini che attualmente identificano il business dello shale, da molti ritenuto vittima e carnefice del crollo delle quotazioni del greggio, oggi dimezzatesi rispetto ai 100 dollari del luglio 2014. Se è vero che il calo dei prezzi oil è in larga parte ascrivibile alla condizione di oversupply esistente su scala mondiale, trainata dal boom unconventional del Nord America ed esacerbata dalla decisione dell’OPEC di difendere la propria quota di mercato, è altrettanto indubbio che un simile trend abbia messo a dura prova gran parte delle compagnie energetiche, costrette a rivedere anche in misura significativa le proprie spese di investimento. A risentirne maggiormente sono le società attive nello shale, già peraltro in stato di indebitamento a causa dei deboli prezzi del gas statunitense rispetto a costi di produzione elevati e ad una modesta crescita dei consumi. Se le major internazionali mantengono una certa solidità grazie anche alla loro struttura verticalmente integrata, le società indipendenti che operano nell’upstream e cresciute con lo shale boom sono le più colpite. Tali imprese operano spesso sia nei giacimenti di shale oil che di shale gas, in virtù anche del fatto che quest’ultimo viene in alcuni casi estratto in forma di gas associato ai pozzi di petrolio; pertanto, risultano indebolite dal congiunturale calo del prezzo del petrolio che, sommato agli altri fattori sopra accennati, ha contribuito a contrarne i profitti. Basti pensare che tre delle maggiori compagnie USA – Anadarko, Chesapeake e Devon Energy – hanno chiuso il primo trimestre del 2015 in perdita, cui hanno contribuito minori entrate e svalutazioni (impairments) per un totale di circa 13 miliardi di dollari. In taluni casi, si è palesato anche il rischio di default. Nei primi nove mesi del 2015, solo negli USA, sono andate in amministrazione controllata 9 società energetiche; addirittura, la criticità della situazione è tale da indurre alcuni analisti a preconizzare una possibile bolla finanziaria . I casi di bancarotta, d’altronde, sono sempre più frequenti, come avvenuto nel caso di Samson Resources e prima ancora Energy Future Holdings. In sostanza, il calo del prezzo del petrolio complica e peggiora un quadro finanziario già sotto pressione, costringendo le compagnie ad adottare una politica di riduzione dei costi, a rivedere i programmi di drilling e, conseguentemente, i piani di spesa nelle infrastrutture di supporto. Tale situazione, coadiuvata da un taglio della spesa anche da parte delle grandi major, contribuisce a mettere a rischio gli investimenti energetici a livello internazionale. Secondo Wood Mackenzie, si parla di circa $1.500 miliardi di progetti - sia nell’ambito di sviluppo di risorse convenzionali sia dell’unconventional nordamericano - che potrebbero restare sulla carta. L’analisi che segue riguarda i potenziali effetti del mutato contesto energetico internazionale sullo sviluppo dello shale gas, sia negli USA – sinora indiscusso protagonista - che al di fuori dei confini americani dove nuovi paesi potrebbero diventare i driver della futura offerta di gas non convenzionale. 

La “shale revolution” indietreggia 

Il settore dello shale gas negli USA è un importante business di cui l’economia domestica ha beneficiato in termini di occupazione, maggior introiti governativi provenienti da tasse e royalties, vantaggio competitivo delle imprese nazionali su quelle estere grazie a prezzi interni più bassi, rilancio di settori affini come l’industria della plastica. Tuttavia, il mutato contesto internazionale comincia ad esercitare un impatto non trascurabile sul comparto, mettendo a rischio la produzione futura. Come già accennato, i prezzi oil possono avere un impatto diretto e indiretto sull’industria dello shale gas. Diretto, in quanto il suo sviluppo è legato anche all’estrazione del gas associato ai giacimenti di petrolio, come riscontrabile nei bacini di Eagle Ford e Bakken; indiretto, per via delle ripercussioni finanziarie sulle società energetiche che operano negli shale plays e che, pressate da minori profitti, sono costrette a tagliare le proprio spese di investimento. In assenza di adeguati investimenti, la produzione non può che frenare, specie nei campi unconventional che presentano un elevato tasso di declino dei pozzi (depletion) – nel primo anno arriva anche al 60-70% – fattore che richiede un maggior numero di perforazioni per mantenere un dato livello produttivo. La riduzione delle attività di drilling, come mostra il calo dei rig nei bacini di shale oil e shale gas negli USA nell’ultimo anno, è pertanto un campanello d’allarme che può incidere sulla futura produttività dei giacimenti. Nei primi mesi successivi al crollo delle quotazioni oil, l’industria dello shale si è dimostrata particolarmente resiliente con la tenuta della produzione O&G che, nel caso del gas, ha continuato a crescere fino all’inizio dell’estate. Tuttavia, negli ultimi tre mesi, la produzione ha avviato un lento declino che potrebbe consolidarsi in vista di un mancato recupero delle quotazioni. Attualmente, l’output di shale gas negli USA si attesta sui 44,9 mld pc/g, in calo dello 0,4% rispetto al mese di agosto. Le stime dell’EIA DOE per ottobre prevedono un ennesimo calo dello 0,5% rispetto a settembre, il quarto consecutivo. Sebbene per conoscere uno scenario di più lungo respiro bisognerà attendere il WEO 2015, in pubblicazione a novembre, già nel suo rapporto di medio termine l’AIE ha dato alcune indicazioni prospettiche. L’Agenzia resta convinta che la produzione di gas continuerà ad aumentare, prevedendo una moderata crescita per il gas associato al 2020 con una iniziale caduta cui poi seguirà una ripresa verso fine periodo. Un trend sostenuto dalla riduzione del tasso di depletion in alcuni bacini, come Haynerville, e dalla maggiore produttività dei pozzi come nei bacini di Marcellus/Utica. L’industria dello shale gas non è scomparsa sotto l’effetto del crollo dei prezzi oil ma chiaramente soffre un contesto di minore profittabilità che la mette sotto pressione: se da una parte la produttività dei pozzi è notevolmente aumentata, grazie ai grandi miglioramenti di efficienza nelle performance di fracturing e drilling, dall’altra le compagnie devono fare i conti con prezzi di breakeven sostenuti e costi di produzione più elevati rispetto ai tradizionali campi convenzionali. Se questa è la situazione negli Usa, principale protagonista della shale revolution, è interessante valutare cosa sta accadendo negli altri paesi che, si stanno affacciando ora sulla scena di questo nuovo settore. 

Cosa accade negli altri paesi produttori… 

Ad oggi, al di fuori dei confini statunitensi, lo shale gas è prodotto solo in altri tre paesi: Canada, Cina e Argentina. Si tratta di una produzione ancora esigua se paragonata a quella americana - l’output in Canada è poco più del 10% di quello statunitense, quello della Cina non raggiunge l’1%, mentre in Argentina è stata avviata da poco una produzione commerciale. 
Canada 
In Canada, secondo le stime EIA, le risorse di shale gas tecnicamente recuperabili si aggirano sui 573.000 mld pc, le quarte a livello mondiale, principalmente ubicate nelle provincie della British Columbia (BC), Alberta, Yukon, Northwest Territories, Quebec, New Brunswick e Nova Scotia. I primi volumi di shale gas sono stati prodotti nel 2005 nel bacino di Montney, in BC, ma è a partire dal 2007 che cresce l’interesse delle compagnie energetiche e vengono avviate nuove produzioni nella provincia dell’Alberta e della BC. Nonostante abbia in parte contribuito a compensare il declino dei campi di gas convenzionale nel paese, la produzione risulta essere ancora poco significativa: a maggio 2014 (ultimo dato disponibile), i volumi estratti si sono attestati sui 3,9 mld pc/g, in aumento di quasi 2 mld pc/g rispetto al 2011. A differenza della produzione di petrolio da sabbie bituminose, il settore dello shale gas ha attirato minori investimenti e il concatenarsi di una serie di fattori ne ha condizionato lo sviluppo. 
1. La vicinanza del colosso statunitense: grazie all’avvento dello shale gas, gli Stati Uniti sono passati dall’essere primo importatore di gas canadese a principale paese produttore rivale sui mercati internazionali. L’abbondanza di gas ha generato, infatti, ambiziose aspettative di crescita di un’industria della liquefazione diretta all’esportazione, ma le prospettive risultano essere ben diverse tra due paesi. Mentre negli Stati Uniti significativi progressi sono stati compiuti e ci si attende la partenza dei primi impianti di liquefazione nel brevissimo termine, in Canada nessun impianto di liquefazione è in costruzione con un conseguente procrastinamento in avanti dell’attività di vendita all’estero. 
2. Il basso prezzo del gas nel mercato domestico. L’AECO, il prezzo di riferimento del mercato del gas canadese, ha subito negli anni un drastico ridimensionamento in ragione della stretta correlazione di quest’ultimo con le quotazioni di riferimento del gas statunitense, l’Henry Hub, il cui valore si è fortemente contratto con l’aumento della produzione nazionale. Il collasso dell’AECO ha danneggiato non solo il comparto dello shale gas ma tutto il settore gasiero, già penalizzato dalla drastica riduzione delle importazioni di gas del vicino statunitense. 
3. La sempre più crescente opposizione pubblica per le preoccupazioni di ordine ambientale sull’impatto della fratturazione idraulica, con particolare attenzione alla gestione delle risorse idriche e all’inquinamento atmosferico. Iniziata nel 2009, la protesta ha costretto nel 2011 il governo provinciale del Quebec ad introdurre una moratoria temporanea al fracking e nel 2013 a vietarlo in alcune aree per un periodo di 5 anni. 
Cina 
La Cina, prima nazione al mondo per risorse tecnicamente recuperabili (1.115 migliaia di mld pc), sta conoscendo uno sviluppo del settore molto più lento delle attese. Nonostante gli sforzi profusi e i capitali investiti, molti progetti sono ancora fermi e altri sono stati abbandonati a causa del taglio degli investimenti dovuto al calo dei prezzi del greggio. I volumi di gas prodotti sono esigui: nel 2014, l’output, seppur sestuplicato rispetto al valore del 2013, ha rappresentato appena l’1% della produzione nazionale di gas, attestandosi su 0,13 mld pc/g. Gran parte del gas estratto proviene dai campi localizzati nel Bacino di Sichuan nella parte centro-meridionale del paese dove, nonostante la presenza di major occidentali ad operare prevalentemente sono le compagnie di stato cinesi: la China National Petroleum Corp. (CNPC) e Sinopec. Secondo fonti governative, le due compagnie dovrebbero essere in grado di produrre 0,6 mld pc/g entro il 2015: unico target che rispetterebbe le previsioni, qualora fosse effettivamente raggiunto. L’insorgere di una serie di criticità di diversa natura (geologica, economica e politica), infatti, ha ridimensionato le ambiziose aspettative di crescita precedentemente prefissate: a fine 2014, è stato dimezzato il target per il 2020 da 5,8 mld di pc/g a 2,9 mld di pc/g e negli ultimi mesi è aumentato lo scetticismo sul fatto che anche questo nuovo obiettivo venga effettivamente rispettato. Puntare sullo shale gas per la Cina è un’opportunità in termini economici (riduzione delle importazioni dall’estero e creazione di nuovi posti di lavoro), ma è anche un’esigenza in termini ambientali: l’obiettivo di Pechino è di contenere l’allarmante livello di emissioni, aumentando la domanda di gas a discapito dei più inquinanti consumi di carbone e petrolio. Eppure il colosso asiatico fatica a superare gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo dello shale gas. 
1. Da un punto di vista geologico, il paese sconta un territorio ostile: per trovare il gas bisogna andare in profondità, mentre la presenza considerevole di argille rende la fratturazione idraulica più complessa e richiede un maggior apporto di risorse idriche. Più che mai diventa indispensabile acquisire un’expertise qualificata a supporto delle tecniche di estrazione: un know. how di cui manca l’industria cinese e a cui sta cercando di sopperire mediante acquisizioni di compagnie estere. 
2. A differenza di altri paesi, i campi sorgono in prossimità di aree densamente abitate, pertanto i costi di gestione sono molto più elevati e l’opposizione locale molto più pressante. 
3. Da un punto di vista infrastrutturale, il paese è carente sia della rete di trasporto (gasdotti e reti di distribuzione) che di siti di stoccaggio, indispensabili per lo sviluppo del comparto. 
4. Per quanto nel corso degli anni il governo si sia impegnato a garantire un sistema prezzi e una politica fiscale incentivante, il framework regolatorio è ancora poco attrattivo per i capitali stranieri. Nonostante un timido tentativo di liberalizzazione, i prezzi rimangono sussidiati e regolati dal governo centrale e, pertanto, sono spesso più bassi di quelli del gas importato, rendendo poco profittevole investire in nuova produzione. Inoltre, il calo dei prezzi del greggio, riducendo il costo delle importazioni di gas oil-linked, ha costretto il governo ad abbassare il prezzo al citygate per il settore industriale al di sotto del costo di produzione dello shale gas, creando uno svantaggio competitivo per quest’ultimo. 
5. Da un punto di vista fiscale ad essere incentivata è la produzione di shale gas e non l’esplorazione, attività imprescindibile per la buona riuscita del settore.
Argentina 
Con buone prospettive di crescita si presenta il comparto dello shale gas in Argentina, secondo paese a mondo per risorse tecnicamente recuperabili (802.000 mld pc). Negli ultimi due anni, nel paese sono stati perforati oltre 270 pozzi ed è stata avviata la prima produzione commerciale di shale gas. Secondo l’ultimo dato disponibile dell’Aprile 2015, dalla formazione di Vaca Muerta, nella provincia di Neuquen, sono stati prodotti dalla compagnia nazionale YPF circa 67 mil. pc/g. Si tratta di volumi ancora modesti, ma che confermano la presenza di un ampio potenziale che sta attraendo sempre più gli investitori stranieri: YPF ha già costituito joint ventures con Chevron, Dow Chemical e Petronas mentre ha firmato memorandum d’intesa con China Petroleum & Chemical Corp. (Sinopec) e Gazprom per una futura collaborazione. Diverse sono le ragioni che spiegano il crescente interesse per lo shale gas argentino. 
1. L’imponente ammontare di risorse su cui il paese può contare: nella sola formazione di Vaca Muerta, estesa quanto il Belgio, sono presenti 308.000 mld pc di shale gas capaci di soddisfare l’attuale domanda di energia del paese per almeno 150 anni. 
2. Un incremento della produzione non solo compenserebbe il declino dei pozzi di gas convenzionale ma potrebbe far fronte ad un aumento del consumo interno, oggi soddisfatto da un maggior ricorso alle importazioni con un relativo aggravio sul bilancio dello Stato. 
3. La capacità produttiva dei pozzi è superiore alla media il che si traduce in una considerevole riduzione dei costi. 
4. A differenza di altri paesi, l’area di estrazione di Vaca Muerta ospita già un indotto petrolifero avviato con infrastrutture e servizi esistenti, sebbene in alcuni casi siano datati e obsoleti. 
5. L’impatto sulle risorse idriche (necessarie in grande quantità per la fratturazione idraulica) è minore che in altri paesi. 
6. La minore densità abitativa delle aree interessate dalle attività di esplorazione riduce notevolmente le opposizioni locali, nonché i rischi e i costi associati alla logistica, l’accesso ai siti e la costruzione delle infrastrutture. A questi fattori di vantaggio, tuttavia, si contrappongono ancora numerose barriere da superare: serve potenziare il quadro infrastrutturale specialmente la rete dei gasdotti e rete di distribuzione; manca ancora il know how tecnologico e operativo; occorre garantire ai capitali stranieri un framework regolatorio chiaro e incentivante, minato da anni di politiche nazionaliste, al fine di garantire un supporto politico certo e duraturo. In questa direzione si è mosso il Presidente Cristina Fernandez de Kirchner, approvando nell’ottobre 2014 una prima riforma della legge sugli idrocarburi, con l’appoggio dei governatori delle province dell'Organizzazione federale degli Stati produttori di petrolio (Ofephi). Secondo le nuove statuizioni normative, è stato costituito un titolo concessorio esclusivo per le risorse non convenzionali che estende il periodo di concessione a 35 anni rispetto ai 25 riconosciuti alle risorse convenzionali; viene meno il potere di veto delle provincie e il processo autorizzativo è stato uniformato e accentrato al governo nazionale; è stato posto un limite alla soglia di royalties che le compagnie devono versare e sono stati riconosciuti degli sgravi fiscali. Si tratta di un primo, seppur importante, passo nella lunga strada dello sviluppo dello shale gas in Argentina. Le prospettive, a differenza di altri paesi sono positive ma soggette a numerose variabili di natura congiunturale tra cui: il calo delle quotazioni petrolifere, che potrebbe compromettere i piani di investimento delle compagnie, e le prossime elezioni presidenziali (ottobre 2015), appuntamento importante che inciderà sulle future politiche energetiche del paese. 

… e nel resto del mondo 

Al di fuori dei paesi già produttori, le attività di ricerca e sfruttamento dello shale gas procedono a differenti velocità. Lo sviluppo dello shale gas rientra tra le priorità strategiche degli Stati, per diverse ragioni: rilancio dell’economia, diversificazione delle fonti, minore dipendenza dalle importazioni e conseguente maggiore sicurezza energetica, necessità ambientali. Eppure nessuna produzione commerciale è stata ancora avviata; se è vero che alcuni governi si stanno impegnando nello sfruttamento delle proprie risorse non convenzionali, è altrettanto evidente come in taluni casi l’opposizione interna e altre criticità abbiano creato una situazione di stallo. 
America Centrale e meridionale 
L’intero continente americano è ricco di shale gas. Le stime parlano chiaro: nel Nord America, oltre a Canada e Stati Uniti, anche il Messico ha un vasto potenziale (545.000 mld pc), seguito dai paesi dell’America Latina quali Brasile (245.000 mld pc), Venezuela (167.000 mld pc), Paraguay (75.000 mld pc), Colombia (55.000 mld pc), Cile (48.000 mld pc), Bolivia (36.000 mld pc). In Messico, i risultati positivi delle trivellazioni, l’impegno della compagnia di Stato Pemex, l’approvazione della riforma energetica che apre il mercato messicano per la prima volta dal 1938, sono aspetti che potrebbero attirare i capitali esteri. Tuttavia, anche in questo caso molti ostacoli devono essere superati, tra cui la concorrenza del gas americano a buon mercato che disincentiva la produzione interna a favore delle importazioni. Nel resto dell’America latina, nonostante una buona propensione degli Stati a investire, il settore è ancora al punto di partenza. Alcune prospezioni sono state avviate in Brasile, ma ancora molto deve essere fatto per valutare la reale portata dello shale gas del paese. Anche la Bolivia si sta attivando, spinta dalla necessità di compensare il declino della produzione domestica e far fronte sia agli impegni di fornitura presi con i paesi vicini che alla maggiore richiesta interna. 
Africa e Medio Oriente 
Nel continente africano, lo shale gas è principalmente concentrato in Algeria (707.000 mld pc), terzo paese al mondo per ammontare di risorse. I primi test nel bacino di Ahnet sono stati condotti da Sonatrach nel 2011, ma un maggior interesse è stato mostrato sul finire del 2014. Con una produzione di gas convenzionale in declino a fronte di una crescita della domanda interna e in concomitanza con la caduta dei prezzi del greggio che ha contratto le entrate petrolifere, da cui dipende il 60% del budget nazionale, è diventata più stringente la necessità di diversificare gli introiti e puntare a nuovi settori. Le condizioni per operare sarebbero migliori rispetto ad altri paesi in ragione di un’industria del gas storicamente strutturata, della presenza di infrastrutture di trasporto, dell’ubicazione dei campi in zone poco popolate e di un crescente interesse delle compagnie straniere. Tuttavia, il governo non ha ancora preso una decisione finale di investimento: a fungere da deterrente è l’insorgere di una violenta opposizione pubblica al fracking insieme alla difficoltà di prevedere gli scenari della futura domanda di gas, specialmente quella europea che ha conosciuto un trend discendente negli ultimi anni. A seguire, il Sud Africa con 390.000 mld pc: nonostante il crescente interesse delle major, è forte l’opposizione ambientalista contro la fratturazione idraulica. Proteste e azioni legali hanno costretto inizialmente il governo a varare una moratoria, abolita nel 2012, e ad assumere poi una posizione attendista. Risorse significative anche in Libia con 122.000 mld pc, Egitto 100.000 mld pc e Marocco con 12.000 mld pc; mentre i primi due che hanno compiuto pochi progressi, il Marocco ha intensificato negli ultimi anni l’attività di perforazione, soprattutto ad opera di piccole compagnie, che sta restituendo risultati promettenti. Diversificare le forniture e poter contare su una nuova offerta per far fronte ai consumi nazionali in crescita rientra tra le priorità del paese. Tuttavia, come per altre realtà, esistono una serie di ostacoli quali la carenza infrastrutturale, la scarsità di ingenti quantità di acqua necessarie al fracking, l’assenza di un sistema fiscale e tariffario favorevole all’entrata dei capitali stranieri. Tra i paesi del Medio Oriente, eccezion fatta per qualche iniziativa di collaborazione tra l’Iran e le compagnie cinesi ed occidentali per l’acquisizione del know how, l’unico paese ad oggi interessato allo sfruttamento delle proprie risorse di shale gas è l’Arabia Saudita. Riyadh sta investendo miliardi di dollari in questo nuovo comparto per poter far fronte a una domanda di gas in continua crescita, soprattutto nel settore della generazione elettrica. Diversi accordi sono stati conclusi con le compagnie occidentali, vari progetti esplorativi avviati e c’è chi avanza addirittura l’ipotesi di un avvio della produzione già fra due anni. 
Asia e Australia 
Ad eccezione della Cina, nel continente asiatico non si evidenziano grandi sforzi diretti allo sviluppo dello shale gas; al contrario, prevale una situazione di inattività in Indonesia, Pakistan e India o persino un atteggiamento sfavorevole come nel caso della Russia nonostante possieda risorse per 287.000 mld pc. Lo shale gas non rientra infatti tra le priorità di Mosca: secondo il Cremlino, attualmente l’estrazione e le relative infrastrutture di supporto si rivelerebbero più costose dei possibili profitti, cui si aggiungono gli eventuali danni all’ambiente. Ragioni politiche ed economiche, si celano dietro il comportamento della Russia, impegnata in una campagna contro il fracking, anche fuori dai suoi confini nazionali. Per l’Australia, l’EIA stima un potenziale di 437.000 mld pc di risorse tecnicamente recuperabili. Tuttavia, a differenza del coal-bed methane ampiamente sfruttato nel paese, il settore dello shale gas è ancora ad uno stadio embrionale: i deludenti risultati ottenuti dalle esplorazioni, insieme ad una montante opposizione ambientalista, hanno indotto alcune compagnie ad abbandonare le ricerche. 
Europa 
Complessivamente, l’Europa può contare su un ammontare di quasi 600.000 mld pc di risorse di shale gas, circa il 6,5% del totale mondiale. Tuttavia, ad oggi non sono adeguatamente sfruttate a causa dell’emergere di ostacoli operativi, ambientali e di consenso allo sviluppo delle estrazioni. Negli ultimi mesi, si registrano segnali poco incoraggianti per le sue prospettive di crescita, con un aumento delle opposizioni locali e la rinuncia delle major. Le compagnie internazionali stanno orientando, complici i bassi prezzi del greggio, le proprie strategie industriali verso asset meno rischiosi ed verso una riduzione del capex, misure che hanno reso anche più difficoltosa la mobilitazione del capitale necessario da parte delle indipendenti. Ciò ha un chiaro impatto sull’esplorazione unconventional che in Europa ha costi più elevati rispetto agli USA per via di una regolazione stringente e condizioni geologiche differenti. In Polonia, ad esempio, le grandi major come ExxonMobil, Chevron, Total, Eni sono uscite dal paese - l’ultima è stata ConocoPhillips a giugno - specie dopo gli scarsi risultati dei test iniziali; ciò ha portato di recente anche l’indipendente San Leon a decidere di ridurre la sua esposizione vendendo diversi asset esplorativi nel paese. Stessa sorte è toccata a Romania e Lituania con l’uscita di Chevron. Nel Regno Unito: nonostante il supporto governativo “all out for shale”, si procede lentamente nelle attività di drilling a causa di un aumento dei sentimenti anti-fracking sia nella popolazione che a livello di istituzioni locali. È significativa, in tal senso, la recente decisione della Contea di Lancashire di rigettare la proposta di Cuadrilla Resources di avviare attività di fracking al sito di Roseacre Wood così come l’approvazione di una moratoria temporanea in Scozia e Galles che sospende la concessione di permessi esplorativi. In tale contesto, le prospettive di massici investimenti nello shale gas si sono attenuate, almeno nel breve periodo. Sintomatica è la posizione del Ministro dell’Economia olandese che ha di recente escluso la possibilità di uno sviluppo delle risorse shale nel paese almeno per i prossimi 5 anni. In senso contrario sembra marciare, invece, la Germania che ha approvato quest’anno il disegno di legge che disciplina lo sfruttamento commerciale delle risorse di shale secondo regole ben stabilite. Questa draft law, che dovrà superare il voto del Parlamento atteso entro l’anno, segna un’importante presa di posizione della Germania che di fatto supera la moratoria in vigore, non escludendo l’uso del fracking in determinate circostanze, seppur con notevoli restrizioni. Anche in Spagna è stata approvata una nuova legge sugli idrocarburi che non pone divieti all’estrazione di shale gas ma, d’altra parte, introduce un aumento del carico fiscale sull’attività estrattiva. Nonostante alcuni paesi continuino a supportare lo sviluppo dello shale gas, in un’ottica soprattutto di sicurezza energetica, restano comunque notevoli incertezze sull’effettivo sviluppo dell’unconventional; dubbi che l’attuale contesto di mercato ha contribuito a consolidare.

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