venerdì 17 luglio 2015

Oil market, un anno dopo il crollo: un nuovo punto di equilibrio?




di Lisa Orlandi e Filippo Clô - Rie
Ad un anno dall’inatteso crollo delle quotazioni, il mercato petrolifero sembra aver guadagnato una relativa stabilità che parrebbe configurare un nuovo “punto di equilibrio”. Difficile, comunque, a ritenersi tale, alla luce delle numerose opposte pressioni cui è soggetto. Dopo una fase ascendente dei prezzi che perdurava dal 1999 – a parte il momentaneo crollo successivo alla grande crisi del 2008 – un loro relativo ridimensionamento era preconizzabile, dato il robusto ciclo degli investimenti del decennio scorso (4.000 miliardi di dollari nel solo upstream). Di certo, non poteva prevedersi che avvenisse con l’intensità osservata, anche in considerazione del sommarsi di tensioni geopolitiche internazionali come mai accaduto in passato e dell’ammanco di produzione che ne derivava. 

A motivare il crollo dei prezzi hanno concorso due fattori: la robustezza della shale revolution americana ed il cambio di strategia dell’Arabia Saudita, e forzatamente dell’intera Opec, non più disponibile a sobbarcarsi l’onere di un sostegno dei prezzi di cui si avvantaggiavano i concorrenti. Di fronte alla decisione di lasciare al libero mercato la fissazione dei prezzi, i fondamentali reali – prima oscurati dalla restrizione dell’offerta – hanno segnato il corso degli eventi. 

Anche la finanza vi ha contribuito – come è inevitabile accada in un mercato ampiamente cartaceo – ma non al servizio di complotti internazionali come qualcuno è arrivato a sostenere. Per meglio comprendere il corso degli avvenimenti e le future possibili dinamiche è opportuno ripercorrere quanto accaduto nell’ultimo anno lungo tre distinte fasi. 

La prima, la più estesa, abbraccia il periodo luglio - dicembre 2014. Dopo un triennio in cui a dominare lo scacchiere internazionale sono state le molteplici tensioni geopolitiche in diverse aree chiave di produzione e l’inevitabile speculazione sulle loro possibili implicazioni, i fondamentali reali tornano ad essere protagonisti, evidenziando appieno le loro intrinseche debolezze. A fronte di una dinamica della domanda mondiale continuamente inferiore alle previsioni – quel che solleva delicati interrogativi non tanto sulle modalità con cui sono elaborate quanto sugli effetti distorsivi del mercato che finiscono per provocare – il mercato palesa una sempre più evidente condizione di oversupply. 

Originata, da un lato, dall’esponenziale ed inattesa crescita della produzione unconventional degli Stati Uniti e, dall’altro, dal sostenuto contributo dell’OPEC (sempre superiore al tetto concordato a fine 2011 di 30 mil. bbl./g.). “The problem of oil is that there is always too much or too little”, affermava Frankel nel suo insuperato testo del 1946. Esattamente quanto osservato dall’inizio del Millennio: con la scarsità d’offerta che ha causato un balzo di sette volte dei prezzi tra 2000 e 2008 e, per converso, con l’attuale eccesso d’offerta che li ha più che dimezzati nell’arco di un anno Tra metà giugno e fine dicembre 2014, il prezzo del Brent innesca una continua e sostenuta discesa, da 115,0 a 55,0 doll./bbl, che accelera dopo lo storico meeting OPEC del 27 novembre 2014 in cui viene ufficializzata la decisione dell’Arabia Saudita di abbandonare il tradizionale ruolo di swing producer e di passare dalla difesa dei prezzi alla difesa della quota di mercato. In altri termini: vendere qualsiasi quantità a qualsiasi prezzo il mercato le avesse richiesto.

Nel solo mese di dicembre le quotazioni perdono oltre 15 doll./bbl: prefigurando un ulteriore inarrestabile crollo. In questa prima fase, due sono gli interrogativi che emergono dalla gran massa di analisi, previsioni, stime avanzate da banche d’affari, centri di ricerca, imprese. Da un lato, quale potesse essere il possibile “punto di caduta” dei prezzi: se ancorato ai costi marginali della shale production americana, con stime sino a 25 doll/bbl, o ai più elevati fiscal breakeven dei paesi produttori. Dall’altro lato, la capacità di tenuta dell’industria shale: figlia di prezzi a tre cifre, fortemente indebitata, caratterizzata da elevati tassi di declino, obbligata ad un continuo flusso di investimenti per non veder interrotta la produzione. 

In un proliferare di scenari e previsioni, due le convinzioni che parevano più condivise. In primo luogo, il fatto che si fosse avviato un ciclo ribassista dei prezzi che, nel parere o nei desiderata dei più, si sarebbe comunque esaurito nell’arco di 12-24 mesi, con prezzi che sarebbero risaliti a livelli comunque non superiori ai precedenti 100 doll/ bbl. In secondo luogo, il convincimento che la produzione non convenzionale americana avrebbe conosciuto un inevitabile drastico rallentamento se non un definitivo affossamento. Mentre la prima previsione può ritenersi tuttora valida, la seconda si è dimostrata – almeno ad oggi – del tutto errata. A dimostrazione di come la realtà produttiva, organizzativa, tecnologica e soprattutto il modello di business dei shale producers continui ad essere ignoto, così da non poterne preconizzare la capacità e le strategie di risposta alla caduta dei prezzi. Le dinamiche dei primi quattro mesi del 2015 – ed è la seconda fase – evidenziano appieno la discontinuità sul passato sia in termini di andamento dei prezzi che delle determinanti che ne stanno alla base.
Dopo aver toccato a metà gennaio quello che – almeno sinora – è il punto di massima caduta, con minimo giornaliero di 46 doll./bbl, si avvia una fase di tendenziale rialzo con prezzi che prendono ad oscillare da metà febbraio a metà aprile nella banda 55-60 doll/bb. Un rialzo non sostenuto, tuttavia, da una significativa alterazione dei fondamentali reali: con una domanda in crescita, ma meno di quanto atteso, ed un’offerta che cresce ancor di più: così consolidandosi l’oversupply da cui la crisi originò. Ciononostante, si rafforza il convincimento di un inevitabile ‘imminente’ rallentamento della produzione statunitense: per il progressivo calo dei rig2 attivi e per i robusti tagli degli investimenti (20%-25%) annunciati dalle oil companies. Da qui, l’aspettativa di un maggior bilanciamento del mercato nella seconda parte dell'anno ed il consistente riposizionamento dei portafogli degli operatori finanziari: dopo l’ondata di vendite che aveva segnato il secondo semestre 2014, si registra infatti una netta inversione, indicativa di un ritrovato mood ottimista, non supportato comunque dalla realtà di un mercato fisico che resta sostanzialmente debole. In sintesi, questa fase è segnata da un evidente scollamento tra effettivo stato dei fondamentali reali del mercato ed aspettative sulla loro evoluzione, tale da determinare una significativa attività sui mercati dei futures. 

La terza fase, ancora in corso, segna il passaggio da un mood ottimista a sentimenti di maggior cautela e attesa. Dopo aver raggiunto a metà maggio il massimo dell’anno a circa 67 doll./ bbl, si assiste ad un ripiegamento delle quotazioni che, per tutto il mese di giugno, mostrano oscillazioni contenute attorno alla soglia dei 60 doll./bbl, mentre perdono oltre 6 dollari ad inizio luglio, scendendo a quota 55 il 7 del mese. Dati alla mano, le aspettative di ridimensionamento dell’oversupply nel secondo semestre 2015 – che avevano guidato la fase di rialzi nella prima parte dell’anno – prendono a vacillare, con conseguente ridimensionamento delle posizioni finanziarie. 

La domanda non tiene il passo di un’offerta che, contrariamente a quanto atteso, non mostra segni di cedimento. Di particolare interesse la tenuta di quella americana, con i rig attivi che a fine giugno risultano in aumento dopo 29 settimane consecutive di calo: a indicare che i prezzi attuali non rappresentano un solido deterrente alla continuità dell’attività esplorativa ed estrattiva. Non si ravvisano segnali di frenata nemmeno da parte degli altri grandi produttori. L’OPEC, nel meeting di giugno, ha confermato le decisioni di fine novembre, continuando a produrre ben al di sopra del tetto ufficiale, mentre la Russia ha retto sinora bene al calo dei prezzi ed al peso delle sanzioni, con una produzione che ha toccato nuovi massimi prossimi a 11,0 mil. bbl./g. Nella sostanza, la lettura dello stato dei fondamentali reali denota condizioni di debolezza tali da non supportare rialzi sostenuti e prolungati dei prezzi. Da qui, un generale atteggiamento di cautela e di wait and see rispetto ai nuovi scenari macroeconomici e geopolitici che vanno delineandosi.

Shale oil: tra resilienza e futuro incerto 
Una delle poche certezze di questo primo anno di bassi prezzi del petrolio è che la tanto paventata implosione dell’industria shale americana non è avvenuta. Al contrario, buona parte dei circa 13.000 produttori indipendenti che vi operano ha mostrato una sorprendente capacità di resilienza ascrivibile al combinarsi di diversi fattori. In particolare, l’industria ha saputo mettere in atto sensibili miglioramenti di efficienza, abbattendo i costi operativi e aumentando la produttività dei pozzi ed i tassi di recupero. Un risultato conseguito grazie alla loro struttura snella che consente una rapidità decisionale del tutto estranea alla grande industria. Le compagnie hanno saputo rispondere al crollo dei prezzi focalizzandosi sui campi più prolifici e continuando ad affinare le operazioni attraverso processi di “learning by doing”.

Il tempo necessario alla perforazione di un pozzo è mediamente sceso da 35 a 17 giorni, mentre l’ammontare di greggio prodotto per dollaro investito è previsto crescere del 65% nel corso dell’anno. Secondo alcuni dei principali produttori, i miglioramenti di efficienza conseguiti sono stati tali da consentire loro a 65 dollari gli stessi ritorni che si avevano a 90. La grande rapidità decisionale degli shale producers americani in risposta alle variazioni dei prezzi – con riduzioni della produzione a fronte di un loro calo ed aumenti in caso opposto – porta a prefigurare un loro ruolo di swing producer del mercato al posto di quello sinora svolto dall’Arabia Saudita. Se così fosse – e la relativa stabilità dei prezzi sembrerebbe confermarlo – Riad avrebbe conseguito uno degli obiettivi che auspicava raggiungere con la modifica della sua strategia. 

A dar man forte alla tenuta degli indipendenti americani è anche l’accesso al credito ed al mercato dei capitali di cui hanno continuato a godere perfino le imprese maggiormente indebitate. Se da un lato il rischio di affossamento dell’industria può quindi dirsi scongiurato, dall’altro risulta difficile immaginare che una frenata della produzione non abbia in futuro a verificarsi. Il taglio degli investimenti e la consistente riduzione dei rig a partire dallo scorso ottobre – a prescindere dall’ultimo dato positivo – si tradurrà in un calo della produzione, che l’EIA stima già a partire da giugno, seppur graduale e non traumatico. Al contempo, l’accesso ai capitali si va facendo comunque più difficoltoso. I programmi di hedging per il 2016 sono inferiori a quelli dell’anno in corso e diverse compagnie trovano sempre più arduo reperire capitali attraverso la vendita di azioni. 

Anche l’accesso al credito potrebbe chiudersi a breve: il 1° ottobre è attesa infatti una nuova valutazione da parte delle banche del valore delle riserve oil&gas di molte compagnie, valutazione che sancirà i limiti dei prestiti che queste ultime potranno ottenere. 

Quali attese per il breve termine? 

L’analisi delle dinamiche che hanno interessato l’oil market nello scorso anno evidenzia la grande difficoltà di ogni esercizio previsivo in un contesto caratterizzato da fisiologica incertezza. Tuttavia, si può tentare di formulare una qualche riflessione sullo scenario atteso da qui a fine anno, ponendo attenzione alle situazioni che più potrebbero impattare sui fondamentali reali di mercato. In primo luogo, il rallentamento dell’economia cinese. 

Nello scorso decennio, la Cina è stato il principale driver di crescita dei consumi petroliferi mondiali. Una qualsiasi notizia relativa all’andamento della sua economia tende ad impattare sulle aspettative del mercato del petrolio. Il recente crollo della borsa asiatica, con una perdita di valore del 30% in appena tre settimane, ha spinto il governo ad approntare misure di emergenza ma permane scetticismo sulla capacità di quest’ultimo di arginare la bolla in atto. In secondo luogo, le prospettive nelle prossime settimane del negoziato tra Occidente e Iran relativamente all’annosa questione nucleare. Nel caso di una soluzione positiva si riverserebbe sul mercato internazionale un’offerta addizionale prossima a circa 1,0 mil. bbl./g, pari al calo conseguente alle sanzioni all’Iran decretate da Stati Uniti ed Europa. Quanto all’insieme dei paesi Opec è prevedibile che ciascuno di essi prosegua nella strategia di difesa della sua quota di mercato, a partire da Iraq e Arabia Saudita che stanno producendo a livelli record (rispettivamente di 10,0 e 4,0 milioni di bbl./g). 

Da ultimo, l’industria petrolifera statunitense ha sinora dimostrato di saper reggere bene a prezzi dimezzati rispetto a quelli che ne hanno consentito il boom. E’ quindi piuttosto probabile che continui a rappresentare un importante driver della futura offerta incrementale di greggio, allontanando nel tempo le possibilità di un ridimensionamento significativo del surplus di offerta. 

Nel complesso, l’insieme degli elementi sopra descritti porta a delineare un quadro ancora caratterizzato da fondamentali reali deboli che con buona probabilità guideranno il mood del mercato anche nei prossimi mesi. Le attese sono quindi di un prezzo che possa continuare – a meno di imprevedibili eventi – ad oscillare intorno ai 60 doll/bbl da qui a fine anno. Soglia che non può escludersi possa in futuro delinearsi come nuovo “punto di equilibrio” del mercato petrolifero internazionale. 

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